Ciò che rimane di me di Federica Re



La brevità non è sinonimo di semplicità, in particolare nelle composizioni di Federica Re. La sua parola si dipana sulla carta in mille rivoli di significati, rimandi, metafore, suggestioni, immagini che si manifestano pure visivamente, nella punteggiatura, negli spazi, nei corsivi, in una poesia “pittorica” che, anche attraverso la commistione tra arti diverse mira a sfocare i confini, a superare i limiti (di spazio, di tempo, di forma), a cancellare le identità, per tentare di fondersi in un indefinito che anela esplicitamente all’infinito. E poco conta se ciò sia possibile o meno: l’anelito resta. E forse va oltre.

(dalla postfazione di Giovanni Moia)



Se (non) mi guardi

mi stacco dal finito

e le mie dita

ti ammoniscono fruscianti


mentre dissemino

le spoglie di me stessa

rivendicandone

l’impavido clamore.


Non hai saputo

tenermi tra le braccia

né riconoscere le

labbra sulle tue


ed hai scambiato

ogni mia resurrezione

per un ritorno

dopo la follia.


(ma questa volta

non ti cercherò)



La fonte della felicità




Gaudente mi rifugio 

nell’estatica bellezza 

di un cielo sconfinato 

che mi avvolge e 

mi consola:


docili si placano ansie 

disordinate e strane


mentre gli occhi estasiati 

ammirano le sapienti 

evoluzioni dell'universo.


Nulla avrà mai fine 

in quest’attimo d’eternità


nulla turberà la pace 

dello spirito placato 

con dubbi inquieti e 

rimpianti mai asciugati


ma un silenzio venerato 

e meditabondo

tacerà la paura del divenire


e lascerà che il pensiero 

si abbeveri fecondo 

alla Fonte della Felicità





mentre mi guardi

da spazi forse solo immaginati


i tuoi occhi rotolano accorti

dentro la mia anima

sfiorando solo le parti

di me stessa 

che non so scegliere 

nè dimenticare


ma nonostante il tempo

inutilmente sparso 

dai nostri umori e

dalle nostre troppe attese

che si ripetono senza più direzione


non ti è permesso

infliggere ad una sagoma 

finita, i fitti assilli 

del mio vociare manicheo



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