Mantenendosi a sua volta in bilico tra il detto e il non-detto, sebbene questa raccolta sia chiaramente incentrata su una dinamica amorosa, non dovrebbe stupire che qui la parola “amore” non sia mai dichiarata, o tantomeno pronunciata, come innominato resta l’oggetto di questo amore – oggetto eppure vettore di queste pagine – risultando in questo modo anonimo, assente, quindi negato, ma anche protetto, illimitato e ubiquo allo stesso tempo.
Tripartita nella sequenza temporale delle sezioni che compongono l’opera, quella nella poesia di Rocío Bolaños è una passione intravista e già consumata, una inaspettata ventata d’aria nei polmoni capace di dimostrare che forse mancava qualcosa a quello che si credeva essere già tutto il bene. È un incontro totalizzante in grado di significare l’esistenza, di farsi casa e «nuovo paesaggio», lente e lingua inedite per leggere il mondo, per allargare il presente e distorcere il tempo. E nondimeno, anticipata «la fine del calendario», diviene incarnazione del pavesiano disamore, del sisma, della privazione e del raffreddamento, di un oblio che «si nutre della tiepida cortesia», restituendo semplici rovine e un vuoto di senso da dover ricolmare.
Oltre al colle custodisce dentro i suoi argini tutti questi attriti, perché è la vita stessa – per chi osa osarla – a esserne costituita. E forse, è proprio e solo in virtù di questo resoconto impietoso, di questo controcanto a posteriori che, ancora una volta, è finalmente possibile dire: «Restituisco col mio canto / la sorte di riscoprirmi viva»". (dalla prefazione di Dario Talarico)
Mi sono lasciata scolpire
senza colpe né tormenti
da una lingua delicata
da una forza taciturna.
Restituisco col mio canto
la sorte di riscoprirmi viva.
Commenti
Posta un commento