Poesie del disamore di Cesare Pavese


Rileggere Pavese oltre il mito: torna Poesie del disamore

Riscoprire Poesie del disamore nella nuova edizione a cura di ChiareVoci Edizioni significa lasciarsi attraversare dalla voce autentica di Cesare Pavese, al di là della biografia e del clamore postumo. Questa miscellanea, pubblicata per la prima volta nel 1962, ebbe un impatto significativo, legato alla tragica fine dell’autore e in particolare alla sezione conclusiva, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apparsa separatamente nel 1951 poco dopo il suicidio di Pavese e divenuta presto un simbolo testamentario. Rileggere oggi queste liriche, lontano dal contesto della cronaca, significa riscoprire tutto il loro valore e la stratificazione poetica.

La raccolta si distingue per l’eterogeneità delle sue sezioni. Si apre con le Poesie del disamore (1934-1938), liriche intense che mettono a fuoco le relazioni uomo-donna come nodi dolorosi e irrisolti. Seguono poi le Altre poesie (1931-1940), che spaziano fra temi come le colline, la natura e il tempo, motivi ricorrenti anche nella prosa di Pavese.

La sezione La terra e la morte (1945-1946) mostra un’evoluzione stilistica: versi sempre più brevi e musicali, privi di titolo, quasi un unico canto concentrato. Questo andamento si ritrova anche nelle Due poesie del 1946, dedicate alla donna e all’amore. Infine, chiude la raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, con alcune delle liriche più potenti e indimenticabili dello scrittore, accolte nel 1951 come un testamento spirituale unanime di Pavese.

"Il termine disamore indica la mancanza di amore, ma anche il suo sperpero o rovesciamento: il sentimento che allontana invece di unire. L’esperienza di un legame che si spezza e lascia un vuoto incolmabile, un senso di solitudine, una sensazione di strappo. Nei versi di Pavese questo si traduce in immagini nette, come in Solitudine: «Le notti non finiscono mai / e l’alba è un dolore leggero». 
La parola pathos in Cesare Pavese diventa forza che permane, è il nucleo vitale della sua opera, l’intensità che travolge e segna, va oltre alla semplice emozione di sofferenza e passione. Il pathos pavesiano ha la capacità di parlare a tutti.
Leggere la raccolta Poesie del disamore significa entrare in un laboratorio emotivo in cui Pavese scandaglia il rapporto tra desiderio e perdita, il bisogno di contatto e la certezza del distacco. In Il vino triste emerge l’uomo solo, costretto a confrontarsi con il proprio corpo e la memoria: «Chi direbbe / che in quest’uomo trascorrono tiepide vene / dove un tempo la vita bruciava?» Qui la solitudine diventa carne svuotata di significato". (dall'introduzione di Rocío Bolaños)

Il vino triste (2°)


La fatica è sedersi senza farsi notare.

Tutto il resto poi viene da sé. Tre sorsate

e ritorna la voglia di pensarci da solo.

Si spalanca uno sfondo di lontani ronzii,

ogni cosa si sperde, e diventa un miracolo

esser nato e guardare il bicchiere. Il lavoro

(l’uomo solo non può non pensare al lavoro)

ridiventa l’antico destino che è bello soffrire

per poterci pensare. Poi gli occhi si fissano

a mezz’aria, dolenti, come fossero ciechi.

Se quest’uomo si rialza e va a casa a dormire,

pare un cieco che ha perso la strada. Chiunque

può sbucare da un angolo e pestarlo di colpi.

Può sbucare una donna e distendersi in strada,

bella e giovane, sotto un altr’uomo, gemendo

come un tempo una donna gemeva con lui.

Ma quest’uomo non vede. Va a casa a dormire

e la vita non è che un ronzio di silenzio.

A spogliarlo, quest’uomo, si trovano membra sfinite

e del pelo brutale, qua e là. Chi direbbe

che in quest’uomo trascorrono tiepide vene

dove un tempo la vita bruciava? Nessuno

crederebbe che un tempo una donna abbia fatto carezze

su quel corpo e baciato quel corpo, che trema,

e bagnato di lacrime, adesso che l’uomo,

giunto a casa a dormire, non riesce, ma geme.



Creazione


Sono vivo e ho sorpreso nell’alba le stelle.

La compagna continua a dormire e non sa.

Dormon tutti, i compagni. La chiara giornata

mi sta innanzi piú netta dei volti sommersi.

Passa un vecchio in distanza, che va a lavorare

o a godere il mattino. Non siamo diversi,

tutti e due respiriamo lo stesso chiarore

e fumiamo tranquilli a ingannare la fame.

Anche il corpo del vecchio dev’essere schietto

e vibrante – dovrebbe esser nudo davanti al mattino.

Stamattina la vita ci scorre sull’acqua

e nel sole: c’è intorno il fulgore dell’acqua

sempre giovane, i corpi di tutti saranno scoperti.

Ci sarà il grande sole e l’asprezza del largo

e la rude stanchezza che abbatte nel sole

e l’immobilità. Ci sarà la compagna

– un segreto di corpi. Ciascuno darà una sua voce.

Non c’è voce che rompe il silenzio dell’acqua

sotto l’alba. E nemmeno qualcosa trasale

sotto il cielo. C’è solo un tepore che scioglie le stelle.

Fa tremare sentire il mattino che vibra

tutto vergine, quasi nessuno di noi fosse sveglio.




Ritorno di Deola


Torneremo per strada a fissare i passanti

e saremo passanti anche noi. Studieremo

come alzarci al mattino deponendo il disgusto

della notte e uscir fuori col passo di un tempo.

Piegheremo la testa al lavoro di un tempo.

Torneremo laggiú, contro il vetro, a fumare

intontiti. Ma gli occhi saranno gli stessi

e anche i gesti e anche il viso. Quel vano segreto

che c’indugia nel corpo e ci sperde lo sguardo

morirà lentamente nel ritmo del sangue

dove tutto scompare.


Usciremo un mattino,

non avremo piú casa, usciremo per via;

il disgusto notturno ci avrà abbandonati;

tremeremo a star soli. Ma vorremo star soli.

Fisseremo i passanti col morto sorriso

di chi è stato battuto, ma non odia e non grida

perché sa che da tempo remoto la sorte

– tutto quanto è già stato o sarà – è dentro il sangue,

nel sussurro del sangue. Piegheremo la fronte

soli, in mezzo alla strada, in ascolto di un’eco

dentro il sangue. E quest’eco non vibrerà piú.

Leveremo lo sguardo, fissando la strada.



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