L'unione arbitraria delle singole parti di Giuseppe Carlo Airaghi

L’unione arbitraria delle singole parti di Giuseppe Carlo Airaghi



Con L’unione arbitraria delle singole parti, Giuseppe Carlo Airaghi propone una rilettura del proprio itinerario poetico, restituendo alla sua opera una nuova forma di unità non cronologica ma tematica.

L’autore rilegge e riordina testi tratti da quattro raccolte precedenti, individuando corrispondenze, echi e figure ricorrenti che compongono un tessuto coerente e in continua evoluzione.

La scelta del titolo – “arbitraria” e insieme necessaria – chiarisce la natura del progetto: un tentativo di dare forma provvisoria al movimento incessante della scrittura, che non si limita a registrare il vissuto, ma lo trasforma in conoscenza. Airaghi indaga la memoria, l’amore, la perdita, la città, l’infanzia e il cammino come luoghi di attraversamento dell’esperienza poetica.

I due poemi finali ampliano il registro lirico verso una dimensione quasi teatrale, dove la voce individuale si fa monologo e ricerca di senso collettivo.

Ne emerge un autoritratto poetico che non mira alla sintesi, ma alla risonanza: un’opera che mostra come la poesia possa ancora essere un atto di ascolto e di scoperta, capace di restituire ordine, anche se arbitrario, al disordine del vivere.


...Il titolo stesso, L’unione arbitraria delle singole parti, dichiara che l’arbitrarietà è l'unica via possibile per restituire voce soprattutto a quei testi che sono stati scartati perché non del tutto in linea alla produzione precedente di Airaghi, il quale ha sempre preferito mettere alla prova la propria penna poetica costruendo opere dal chiaro filo conduttore. Questo ha implicato molta scrittura, molta revisione, molto scarto. 

Le poesie salvate dall'editing e quelle recuperate dal cassetto degli inediti mostrano come nello spazio di più libri, in fasi di vita diverse, siano rimaste costanti alcune urgenze: il dialogo con l’interiorità, la necessità di nominare il dolore, l’attenzione al paesaggio urbano e umano.

Quello che tiene insieme testi apparentemente lontani è la costanza di una postura poetica: rifuggire la retorica e scegliere parole capaci di nominare ciò che altrimenti resterebbe nel campo del non detto: 

«Non è compito della poesia / consolare il male dal proprio male. / Il compito semmai è nominarlo.»

È proprio questa la funzione che Airaghi affida alla scrittura: prima descrivere, poi rivelare, anche quando le rivelazioni allargano le ferite.

Così, un giro al mercato rionale diventa metafora del logorio degli anni:

«Resta qualcosa impigliato ai tendoni / ai vulnerabili carciofi esposti […] questa umanità animale / aggrappata feroce alla vita, / alla fatica della presa.»

È una poesia che non si limita a descrivere, ma cerca nella realtà quel punto in cui l’esperienza individuale incontra due condizioni comuni a tutti, il dolore e la fatica.

Anche nei testi più interiori, lo sguardo è posato sulla comunità umana: «Camminare e camminare ancora / è l’unico modo che ancora mi resta / per dichiararmi ancora vivo.»

Ad ogni metro di questo cammino riconosciamo l'istinto comune di resistere.

La raccolta ridona coerenza a partire da un percorso accidentato e vario, fatto un po' a piedi, in bicicletta, in auto, in tram, in autobus, in carrozzina, in treno, in ambulanza e per mare.

L'unione arbitraria delle singole parti ci insegna a riconoscere i variegati avvenimenti della nostra storia privata per comporre un senso - almeno provvisorio - della propria esistenza.

(dalla postfazione di Elisa Malvoni)


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